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LE SBIANCHE L’industria dell’imbianchimento delle tele, diretta genitrice di quello che oggi si chiama candeggio, fiorì ad Intra nei primi del 1700 e diventarono industrie fiorenti. | Periodo ottimale per la visita: | Non è rimasto più nulla da visitare. |
Descrizione Specifica del luogo: | L’industria dell’imbianchimento delle tele, o industria delle bianche o delle sbianche o biancherie, fiorì ad Intra nei primi del 1700 ed è la diretta genitrice di quello che oggi si chiama candeggio.
L’operazione, manuale, si faceva su merce proveniente per lo più dalla Svizzera e dalla Germania.
Le tele gregge venivano messe per un periodo di circa 4 o 5 ore nelle peschiere, (recipienti quadrati fatti di muro) per la macerazione. Questa operazione veniva fatta gettando sopra alle tele “il bianchetto” ossia acqua fredda mescolata con calcina sfarinata. Sopra alle tele riposte nella peschiera veniva fatta scorrere altra acqua proveniente dai fiumi vicini per mezzo di cataletti. Terminato il tempo di macerazione le tele venivano tolte, distese al sole sopra ai prati vicini per 5 o 6 giorni se il tempo era bello e continuamente bagnate con acqua corrente. Dopo averle bagnate e sbattute venivano nuovamente riposte nelle peschiere rinnovando il bianchetto. L’operazione veniva ripetuta per 4 o 5 volte a seconda delle tele da sbiancare. Terminata l’operazione di sbiancamento, le tele venivano lavate in acqua corrente e, ancora bagnate, poste in una tina (grande vaso in legno). Sulle tele veniva versata acqua calda contenente sapone di Como o di Genova e poi, versata questa, veniva aggiunta altra acqua calda e cenere. Questa operazione veniva ripetuta per sei o sette volte. Raffreddate, le tele venivano estratte e nuovamente distese al sole per farle asciugare. Lavate per l’ultima vota nella fossa con acqua corrente e asciugate al sole, venivano piegate, poste sotto il torchio e rimesse in balle.
Le peschiere ordinarie erano in grado di contenere circa otto balle di tela greggia e ogni balla era composta da circa 22 pezze.
Le sbianche e le loro nebbie vennero ritenute responsabili dalla popolazione di epidemie e gli sbianchini furono accusati di esercitare malefici influssi ai danni della comunità e di compiere il proprio lavoro con l’ausilio di pratiche magiche:
“Al primo scarso raccolto, alla prima tempesta, si gridò contro i maghi di Intra. Non mancò chi attestasse di aver visto coi propri occhi cadaveri imbiancare le tele; e su quelle, gigantesche larve sorte dalle onde del lago intrecciare diaboliche ridde. Le ciarle popolari furono da principio derise dai saggi; finalmente anch'essi furono trascinati dal torrente e dovettero giustificare la proibizione di imbiancare le tele.”
Il fallimento dei raccolti era accompagnato da fenomeni insoliti: le uve, senza una causa nota, seccavano e si consumavano; le fronde erano cosparse di una polverina biancastra mai vista prima, la nebbia faceva cadere e inaridire le foglie. Il popolo si domandava la causa di ciò incolpando l’esercizio delle sbianche, la cui apertura pare abbia coinciso con la comparsa dei fenomeni sospetti.
Il 14 agosto 1758 il conte don Giovanni Castellani Fittoni, referendario del Consiglio di Stato, ordinò di togliere immediatamente le tele asciutte dai prati e di rimuovere le altre man mano che terminava l’asciugatura. Fino a nuove disposizioni di Sua Maestà era vietato distendere altre tele ad asciugare. A seguito dei tumulti il conte, in esecuzione del real comando, revocò il decreto in data 25 agosto e le sbianche ripresero a funzionare e finirono per diventare industrie fiorenti. |
Aspetti storici: | Il processo alle sbianche.
Le prime mosse avvennero il 26 luglio 1758, quando i Sindaci della Degagna di S. Pietro consegnarono una lettera al Sindaco Generale della Degagna, Giuseppe De Albertis per promuovere un’agitazione al fine di sopprimere le sbianche, accusate dei malanni che affliggevano alle campagne. Il 3 agosto fu convocato il Consiglio allo scopo di discutere meglio l’argomento. Fu composta una commissione, formata dal Sindaco Giuseppe Zani, da due reggenti e dal De Albertis, la quale si assunse il compito di recarsi dai proprietari delle sbianche, per indurli a sospendere l’esercizio delle loro attività. Gli sbiancatori si rifiutarono tuttavia di accogliere tale richiesta. Uno di loro, Pietro Antonio Simonetta, dichiarò che la facoltà di sbiancare gli era stata concessa da un decreto regio e solo con un altro decreto poteva essergli tolta. Si decise allora di seguire la via legale, rivolgendosi al re e ordinando che ciascun comune interessato costituisse i rispettivi procuratori. Ancor prima che il ricorso fosse spedito, Sua Maestà inviò un biglietto, il 7 agosto, affidando al Conte Don Giovanni Castellani Tittoni, Regio Referendario del Supremo Consiglio di Stato, l’incarico di raccogliere le necessarie informazioni. Questi invitò tutti i comuni contrari all’esercizio delle sbianche a presentarsi il giorno 14 agosto al Pretorio d’Intra, sede della Magistratura.
Lunedì 14 agosto 1758, il Conte Castellani giunse a Pallanza, "accolto da un numeroso popolo composto da diverse genti come Nazionali, Alpestri ed Estere", tutti con cesti contenenti uva annerita, grano secco e rami cosparsi di polvere bianca.
Dopo un breve discorso del Conte, la parola fu data agli accusatori delle sbianche. Il primo a prendere la parola fu il consigliere Bernardo Maffei che denunciò l’attività delle sbianche. Si aggiunsero poi a protestare il notaio Bernardo Franzi, il Sindaco Generale della Degagna di S. Pietro, rappresentante della Degagna di S. Martino, Bernardo Nicola Fighetto e i delegati di Cannero e Cannobio, che denunciarono fatti simili accaduti nelle loro campagne. E’ curioso che gli stessi fenomeni venissero segnalati anche dove le sbianche non erano presenti.Il Conte Delegato, a quel punto, riprese la parola ricordando l’enorme ricchezza apportata da tale industria fiorente. Promise poi di mandare sul luogo un medico per condurre un’inchiesta. L’intervento non fu accolto con molto successo dal popolo, il quale voleva l’immediata chiusura delle sbianche. Alla fine, di fronte all’insistenza della gente, il Conte emanò un decreto che ne sospendeva fino a nuovo ordine. |
Narrazioni: | Un contemporaneo, il fisico Sebastiano Rovida, che difese il ruolo delle sbianche, spiega in che cosa esse consistessero:
“Scelto un ampio terreno presso delle acque correnti, distese costì le tele agevolmente s’adacquano o con isbruffi di Ventole da lavoratori, o col favor de’ rigagnoli a tal uopo accomodati.
Quindi con una certa concia di calce e liscìa di ceneri si ripongono ne’ tinacchi a macerazione; donde, passato il tempo, che la bisogna richiede, si estraggono, e rilavansi nella vicina corrente, e si spandono al sole: ond’è che senza mestier, cred’io, di mangano, tra pel sole medesimo, che l’etere più sincero v’imprime, tra per li sali dell’acque costì più pure, e vieppiù per cagion de’ nitri de l’aria, dalla sfumata calce e liscìa renduti più tersi, riduconsi finalmente ad isquisito candore.
Alcune argomentazioni de "il notaro causidico Bernardo Franzi ed il Sindaco Generale delle Degagne di S. Pietro, Giuseppe De Albertis", alcuni tra gli accusatori più agguerriti delle sbianche:“E' cosa innegabile. ed incontrastabile., che la nebbia ha una malignità in se stessa, che dove predomina non solo fa cadere ed inaridire le foglie delle piante, ma eziandio fa svanire i frutti pendenti, e rende imperfetti tutti li grani esposti a quella malignità d'essa nebbia, e questo con l'evidenza del fatto si prova da tutti, quando questa nebbia sij naturale. Ora se questo è vero, anzi verissimo, qual maggior danno apporta una nebbia artificiale, come quella che insorge dalle Bianche d'Intra e Pallanza mentre è tanta la quantità de ballotti di tela, che sbiancono or con acqua naturale, or con acqua mista con calce e cenere (quando anche se non vi sij altra composizione d'altri ingredienti nocivi), che di tanto in tanto si vedono a fumicare, che à puoco à puoco formano una nebbia foltissima e poi a puoco a puoco s'inalza, che pare una nuvola, e predominata da venti, gira or qua or là, talmente che se i venti vengono da oriente, porta questa nebbia dalla parte d'occidente, e se il vento viene da monte la nebbia viene dal medesimo vento portata al basso, e se talmente che infetta tutto il Lago Maggiore., e tutti questi cantoni, à tal segno, che doppo che hanno moltiplicato queste sbianche, i poveri massari non hanno con che vivere, perchè essendo infetti tutti questi Paesi dalla malignità di questa nebbia, non si raccoglie nè grani nè uva; e quelli che vivono solo con entrate che rendono le campagne arative e vignate sono necessitati a vivere tutti miserabilmente e far debiti, perchè la cavata dei beni non è sufficiente per pagare i carichi reali. |
Bibliografia: | Renzo Boccardi, Antiche e recenti cronache di traffici ed industrie in Intra, 1949
R. Neuroni, Il Verbano nella rivoluzione industriale,1988. |
| A cura di: Nadia Del Favero | |